Le funzionalità di geolocalizzazione degli smartphone non sono utilizzate solo per fornire servizi sempre più personalizzati sulle esigenze degli utenti; infatti possono anche essere uno strumento nelle mani delle forze dell’ordine e delle agenzie di intelligence, come accade nel caso del Geofencing e dell’FBI.
Da anni esiste un dibattito sulla sicurezza dell’enorme mole di dati che quotidianamente gli utenti riversano nei loro device; dati sensibili, informazioni personali, fotografie, posizionamento. Proprio quest’ultimo elemento è uno dei più discussi, in quanto permette potenzialmente di tracciare tutti gli spostamenti di una persona.
Questo dibattito si riaccende spesso alla luce di eventi che hanno a che fare con la sicurezza o con la lotta al crimine; in questi casi il confine tra la tutela dei dati personali e la repressione di gravi crimini diventa più labile. Per questo, spesso, si crea una collaborazione tra forze di polizia ed aziende big tech.
Un caso di questo tipo si è creato in questi giorni, con l’analisi di nuovi documenti che hanno messo in evidenza alcune dinamiche nelle indagini di un rogo avvenuto a Seattle nell’agosto 2020, nel contesto di proteste da parte del movimento Black Lives Matter dopo il ferimento di Jacob Blake in una colluttazione con la polizia.
Difatti, nel corso delle manifestazioni organizzate dal movimento in tutta la nazione, alcuni membri di Seattle avevano scelto come obiettivo il sindacato di polizia di Seattle (Seattle Police Officers Guild); durante il sollevamento generale, l’avevano bersagliato con numerose bottiglie incendiarie.
Il ruolo del geofencing nelle indagini
A seguito di quegli eventi, che hanno destato preoccupazione in tutta la nazione, sono ovviamente iniziate le indagini; l’FBI ha quindi chiesto a Google di fornire tutti i dati che potessero essere utili ad identificare gli autori dell’assalto, tramite il sistema di geolocalizzazione.
Il Geofencing infatti permette di tracciare un perimetro virtuale in un’area reale, nella forma di un cerchio intorno ad un punto sulla mappa oppure sotto forma di confini predefiniti intorno ad una determinata zona di interesse, tracciando i device che passano entro tali confini.
A seguito della richiesta dell’FBI, Google ha fornito i dati richiesti; secondo l’azienda californiana i dati sarebbero stati prodotti secondo tutti gli standard di anonimato richiesti dalla legge. Le indagini sono poi andate avanti per mesi, durante i quali sono state offerte ricompense per chiunque potesse identificare gli aggressori; questo sembra indicare che i dati di Google non siano stati utili.
Questo genere di richieste da parte delle forze di polizia nei confronti di Google però non è nuovo. Difatti, solo per gli avvenimenti di Seattle, sei ingiunzioni di questo tipo sono state emesse per far luce sulle dinamiche collegate ad azioni del gruppo Black Lives Matter nel Wisconsin.
Più in generale, queste ingiunzioni da parte dell’autorità nei confronti di Google sono in forte crescita; basti pensare che se nel 2018 erano state 982, nel 2020 avevano già raggiunto la cifra di 11.544.