Un po’ fisico, un po’ saggista e accademico italiano, un po’ specializzato in fisica teorica. Il suo sapere aiuta a comprendere meglio l’importanza della missione del telescopio spaziale a raggi infrarossi James Webb, appena trasportato in orbita solare dal razzo Ariane 5.
Già, a Natale è partita dalla base di Kourou nella Guyana francese missione del più grande e potente strumento di osservazione mai costruito al mondo, che porterà avanti il lavoro del suo predecessore Hubble.
James Webb, frutto di una collaborazione internazionale tra l’Agenzia spaziale statunitense (NASA), l’Agenzia spaziale europea (ESA) e l’Agenzia spaziale canadese (CSA), che deve il suo nome al noto amministratore della NASA, spiegherà qualcosa che gli astronomi aspettano da circa trent’anni.
Carlo Rovelli, innanzitutto spiega il perché è stato trasportato a bordo del razzo Ariane 5. “Il telescopio si sposta di molti chilometri, allontanandosi dall’atmosfera della Luna e della Terra, che l’annebbiano”. Un paragone semplifica tutto. “E’ come andare in collina – dice – dove si vede meglio e più lontano”.
Vedere più lontano significa ben altro. Ecco che gli orizzonti si allargano: “Vedere più lontano significa anche vedere più indietro nel tempo, per un motivo molto semplice – continua Rovelli – perché le distanze delle galassie lontane sono enormi e la luce per andare da quella galassia fino a noi, impiega miliardi di anni. Questo vuol dire che se vediamo una cosa più lontana, questa ha viaggiato per più tempo, quindi la vedremo più nel passato”.
Qui l’importanza del telescopio James Webb, vedrà oggetti come erano prima, avvicinandosi perfino al giorno in cui tutto ebbe inizio: “Con questa missione faremo un passo di grosso interesse: scopriremo più lontano e prima del tempo – sottolinea il 66enne veronese – noi sappiamo quando l’universo si è formato: era una grande nube di idrogeno, con un po’ di elio e nient’altro. Non c’erano sostanze ed elementi di oggi, quei metalli, formati dentro le stelle”.
Già, le stelle: James Webb potrebbe vedere, e di conseguenza spiegare, qualcosa di mai visto e analizzato prima. Qualcosa che finora si suppone soltanto, ossia che ci sia stata una generazione di stelle di terza generazione (gli astronomi le contano al contrario) antichissima, funzionante solo con l’idrogeno. “Questa generazione ha cominciato a fare i primi elementi – puntualizza Rovelli – finora queste galassie sono state solo ipotizzate, ma mai viste, forse il telescopio Webb ci dirà permetterà di vederle”.
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Missioni come queste possono stravolgere l’esistenza dell’umanità. Rovelli non ha dubbi: “Guardare l’universo ha cambiato ripetutamente l’immagine dell’uomo di se stesso – rimarca – quando Galileo in una notte di Padova nel tardo Rinascimento italiano ha preso il suo tubo e con le sue lenti lo ha puntato verso il cielo, si è reso conto che aveva ragione Copernico, ha sbalzato la Terra al centro dell’universo, cambiando profondamente il modo con cui l’umanità pensa a se stessa. Questa cosa è continuata, la scoperta del Big Bang, l’universo non ha un’età finita”.
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Chiosa molto filosofica: “Ogni volta che c’è una missione o una scoperta – conclude – questa ci fa riflettere e ripensare a chi siamo noi”.
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