La logica conseguenza dell’ennesimo colpo della Cina sul mondo delle criptovalute. La cosiddette monete digitali segnano un calo dopo l’ulteriore stretta proveniente da Pechino.
Il Bitcoin perde il 7,56% a 41.387,35 dollari, Ether e Litecoin cedono rispettivamente il 10,16% e l’11,16%, mentre il Dogecoin arretra dell’8,70%. Perché? Perché probabilmente è l’effetto della banca centrale cinese.
Il Pboc, infatti, ha rinnovato il suo duro approccio sui bitcoin e le criptovaute, definendo illegali tutte le transazioni e le attività in valuta digitale e promettendo una ferma repressione sui mercati. Lo si legge in una nota dell’Istituto.
Pechino vede le criptovalute come un investimento volatile e speculativo. Ma anche un modo per riciclare denaro
“Le attività commerciali legate alla valuta virtuale sono attività finanziarie illegali”. Questo il punto di partenza da parte della People’s Bank of China, l’ultima mossa della repressione nazionale su quello che Pechino vede come pericolo, un investimento volatile e speculativo nel migliore dei casi, un modo per riciclare denaro nel peggiore. Il trading di criptovalute è stato ufficialmente bandito in Cina dal 2019, ma ha continuato online, attraverso gli scambi esteri. Da qui la repressione significativa.
A maggio, le intuizioni dello stato cinese si sono ripercosse sugli acquirenti che non avrebbero avuto alcuna protezione nel continuare a scambiare Bitcoin e altre valute online, poiché i funzionari del governo hanno promesso di aumentare la pressione sul settore. A giugno, il Pboc ha detto alle banche e alle piattaforme di pagamento di smettere di facilitare le transazioni, emettendo il divieto di “estrarre” le valute per crearne di ulteriori, nonostante una forte attività illegale, dentro la Cina.
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L’annuncio dello scorso week end, dunque, è solo la continuazione della ferrea presa di posizione da parte di Pechino, l’indicazione più chiara che la Cina vuole chiudere il commercio di criptovalute in tutte le sue forme. Almeno nel suo paese. La tecnologia alla base di molte criptovalute, incluso i tanti pubblicizzati bitcoin, si basa su molti computer distribuiti che verificano e controllano le transazioni su un gigantesco registro condiviso noto come blockchain. Come ricompensa, le nuove “monete” vengono assegnate casualmente a coloro che prendono parte a questo lavoro, noto come “mining” di criptovalute.
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La Cina, con i suoi costi dell’elettricità relativamente bassi e l’hardware dei computer più economico, è stata a lungo uno dei principali centri mondiali per l’estrazione mineraria di criptovalute. L’attività era così popolare in Cina che i miners hanno talvolta accusato l’industria di una carenza globale di potenti schede grafiche, utilizzate per elaborare le criptovalute. La repressione cinese, naturalmente, ha già colpito l’industria dei miners. A settembre 2019, la Cina ha rappresentato il 75% del consumo energetico mondiale di bitcoin. Ad aprile 2021, la percentuale era sceso al 46%: un’altra conferma del volli fortissimamente volli fermare la corsa delle criptovalute.