Google Play Store nel mirino di un’imponente azione legale da parte di una fitta schiera di Attorney General. Ma il gigante di Mountain View non resta a guardare.
Non c’è pace per i colossi di Big Tech. Stavolta a fare notizia sulle pagine di cronaca legale è di nuovo Google, bersaglio di una maxi offensiva giudiziaria per violazione delle regole antitrust nella gestione del Play Store. La schiera dell’accusa è a dir poco folta: si tratta del procuratore generale di Washington DC più altri 36 procuratori generali di altrettanti stati della Federazione americana.
L’azione legale è stata avviata lo scorso mercoledì 7 luglio 2021 presso la Corte Federale della California. Tra i principali fautori dell’iniziativa ci sono i procuratori di Utah, North Carolina, Tennessee, New York, Arizona, Colorado, Iowa e Nebraska. I pubblici ministeri non si sono fatti scoraggiare dunque dalla sconfitta subita una decina di giorni fa dalla Federal Trade Commission, le cui accuse di atteggiamento monopolista ai danni di Facebook sono state respinte da un Giudice Federale di Washington, perché non sufficientemente corroborate da prove.
Play Store, per l’accusa è monopolio mascherato
Adesso tocca a Google difendersi dalle accuse di presunto monopolio mascherato. E deve farlo per l’ennesima volta, visto che il suo Play Store è uno degli obiettivi preferiti della Giustizia a stelle e strisce. Il canale di distribuzione delle app per dispositivi Android sarebbe colpevole di frustrare la concorrenza imponendo una eccessiva commissione agli sviluppatori (il 30% a partire da settembre 2021) e ostacolandoli nella vendita dei loro prodotti su piattaforme alternative. Per di più, l’assenza di una commissione su queste ultime determina prezzi più bassi, a totale beneficio dei consumatori.
Ma ormai le battaglie in tribunale fanno parte della gestione quotidiana dei padroni della rete. Solo gli uffici legali di Mountain View stanno lavorando a due cause che hanno per obiettivo il ranking dei risultati della ricerca mobile, la prima intentata ad ottobre 2020 dal Dipartimento di Giustizia e altri 14 stati, la seconda firmata da 38 stati a dicembre, anch’essa incentrata sulla ricerca. Altri 15 procuratori generali invece puntano il dito contro Google per presunte pratiche di concorrenza sleale su Google Ads, la sua piattaforma pubblicitaria.
Google non ci sta: “Accuse senza fondamento”
E infatti i portavoce della controllata di Alphabet non si scompongono, definendo l’azione legale congiunta “priva di fondamento”. Come si legge in un post sul blog dell’azienda, il Google Play Store non impedirebbe ai creatori di app di vendere un prodotto tramite i loro siti ufficiali. “Questa causa non persegue il vantaggio delle piccole imprese o dei consumatori – si legge nella nota – ma solo di una manciata di sviluppatori di grandi dimensioni che non vogliono pagare i vantaggi derivanti dalla distribuzione delle proprie app attraverso il Play Store”.
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I procuratori, dal canto loro, obiettano che il Play Store controlla il 90% del mercato Android, forte del fatto che è installato di default sui dispositivi alimentati dal sistema operativo di Google. Inoltre, il restante 10% dei punti vendita virtuali non sono scaricabili dal Play Store né possono fare marketing “organico” tramite il motore di ricerca più potente al mondo, con conseguente limitazione della libera competizione e ingenti danni in termini di incassi potenziali.
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Siamo di fronte all’ennesimo tentativo di controllare le aziende che a loro volta controllano Internet e di fatto la web-economy. Le istituzioni americane ed Europee hanno messo nel mirino realtà come Big G, Apple, Facebook e Amazon per evitare che la loro leadership sul mercato cancelli il regime di libera concorrenza su cui in teoria poggia il nostro sistema economico occidentale. Se non c’è competizione, non c’è progresso né vantaggio per i consumatori, è il mantra di governanti e legislatori, con il quale Big Tech è sempre più spesso costretto a fare i conti.