L’uscita della Gran Bretagna dall’unione europea sta determinando una serie di impensabili effetti a catena.
L’uscita della Gran Bretagna dall’unione europea, sancita il primo febbraio 2020 dal protocollo Brexit, si sta portando appresso a mo’ di effetto domino un’interminabile scia di conseguenze, non solo sul piano più squisitamente politico per la quale lo scisma era stato progettato, ma anche in altri campi apparentemente di secondaria importanza. Ultimo ad esser toccato, adesso, da una sorta di vendetta a freddo da parte degli altri stati membri sembra essere il settore delle produzioni televisive made in Britain, a proposito delle quali l’UE pare orientata a ridurre drasticamente la distribuzione di massa nel vecchio continente.
La tesi viene avvalorata da un articolo pubblicato in settimana dal The Guardian, che ha preso visione di un documento dell’UE nel quale si mette in risalto la ferma volontà di bloccare il flusso di serie tv, film ed altri titoli immessi all’interno del proprio circuito da paesi “stranieri”, categoria di cui ora la Gran Bretagna fa parte a tutti gli effetti. Non è ancora legge ma solo un regolamento in via di stesura, che se ufficializzato metterà però in subbuglio quello che è uno dei settori attualmente più fruttiferi nelle industrie d’oltre manica.
Black Mirror, Skins, Alien Worlds, White Lines e Downtown Abbey sono solo alcuni dei formati chiave sui quali si accentrano le attenzioni di migliaia di appassionati del piccolo schermo, a quanto pare però Bruxelles vorrebbe adesso ridurre l’impatto culturale british sulla nostra società tramite decisi tagli.
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I tagli ipotizzati fanno tremare ovviamente molte piattaforme on demand, su tutte Netflix e Prime Video, ma bisogna specificare che le direttive europee attuali prevedono che il 30% dei servizi audiovisivi in esse contenute siano originari di stati dell’unione. Un caso a parte è rappresentato invece dalla Francia, dove la soglia di contenuti indigeni è stata innalzata al 60%.
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A oggi il Regno Unito è uno dei maggiori produttori seriali, paradossalmente però l’elevata disponibilità di contenuti anglofoni (con annesso giro d’affari che raggiunge annualmente quota seicento milioni) genera una grave sproporzione con le lingue di altri paesi ostacolandone la crescita: per questo motivo oggi si sta pensando di porre un freno a quello che, andando avanti in questa direzione, stava rischiando di assumere sempre più i connotati di un vero monopolio.
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