Quando l’eccessiva condivisione sui social media può mettere a repentaglio le nostre vite: ecco il limite da non oltrepassare.
Sin dai tempi della nascita dei primi social network la condivisione in rete di notizie, foto, status, video, aggiornamenti e quant’altro ci aiuta indubbiamente a mantenere i contatti e dialogare. In quest’ottica l’introduzione nel tessuto quotidiano di Facebook, Twitter o Instagram, solo per citare i più diffusi, può espletare una funzione utile di raccordo con la realtà e scambio di opinioni con amici, parenti, followers, sconosciuti o outsiders di ogni tipo. Esiste però una linea di confine, che si sta facendo sempre più sottile, oltre la quale i contorni della realtà sfumano in vera e propria malattia, ed ecco allora che da invenzione geniale i social si trasformano in condanna all’ossessione quando non in una triste piaga.
Non esistono soggetti più o meno a rischio, dato che la condivisione famelica colpisce senza distinzione individui di ogni età, sesso, razza o religione. Oggi si chiama oversharing, domani forse distorsione del reale o più semplicemente teatro dell’inutile. E’ la farsa del nuovo millennio, un disturbo della personalità che spinge a mettere in vetrina i menu delle nostre cene, citazioni improbabili di cantanti o filosofi, scampagnate di gruppo o, ancor più vorosimilmente, il dramma della solitudine, da alleviare magari con effimeri riempitivi fake o isterismo a quattro zampe.
Il disturbo dell’esistenza, la malattia mentale o “chiamatela come volete” entra in gioco subito dopo aver fatto clic su quella maledetta voce “pubblica post“. E adesso, cosa accadrà? Cosa faccio, lo cancello? No, lo lascio. E se lo legge X come mi giudicherà? Oh mio Dio, è già passata mezz’ora e nemmeno un like, forse era meglio se stavo zitto. Il flusso di coscienza si accanisce contro la volontà dell’individuo, ed il numero di post cresce in maniera direttamente proporzionale alla loro stupidità: la prima regola d’oro da tenere a mente ai fini di una pubblicazione ottimale è che nessuno ci ha chiesto nulla, dunque forse sì, era meglio tacere.
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Il dubbio, la mania, il tormento, il comportamento compulsivo sono uguali a tutte le età? Certo che no, dipende da moltissimi fattori quali carattere, capacità relazionale, lavoro, stile di vita. Fuori dallo schermo, si intende. In particolare è alle soglie della mezza età che la degenerazione cerebrale sfocia nel ridicolo. Torniamo bambini, giocherelloni, rimorchiatori seriali dell’ultima ora: abbiamo fallito nella vita, ma Facebook & Company ci danno un’altra possibilità e comincia un’esistenza parallela da dare in pasto ai curiosi. Montagne, paesaggi, spiagge, cene, ristoranti, alberghi: non illudiamoci, sono solo fotoricordo, nessun ex-compagno di scuola o vecchia fiamma ci sta invidiando, perché sa bene che quella vita non è la nostra.
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Come se ne sono accorti? Semplice, d’altronde in caso contrario non saremmo online, dove il diniego della realtà diventa feticismo per la messa in scena: è questo l’oversharing, ci siamo spinti oltre ma non vogliamo ammetterlo. Se però siamo così fortunati da rendercene conto entra in gioco la seconda regola d’oro: eliminare l’account, forse, unica soluzione di tutti i mali. Perché no? Magari in questo modo la nostra vita offline un giorno diventerà davvero virale.
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