La Cina bandisce il Bitcoin mining nella provincia autonoma. La blockchain consuma troppa energia: stop alle attività presenti e future.
Il Bitcoin mining consuma troppo e la Cina chiude tutte le attività nella provincia autonoma della Mongolia Interna, ovvero la porzione cinese della Mongolia. Le criptovalute, Bitcoin in testa, vengono virtualmente coniate grazie alla blockchain, la tecnologia su cui è basato il registro che riporta le transazioni. Il sistema offre strabilianti garanzie a livello di crittografia ed efficienza, ma esige esorbitanti quantità di energia per funzionare.
Un dispendio non in linea con gli obiettivi del governo di Pechino, che punta a essere carbon-neutral nel 2060. Nella fattispecie, la Mongolia Interna non ha rispettato i propri obiettivi in termini di consumi e ora taglierà il mining delle criptovalute, dismettendo gli investimenti nel ramo e cessando le strutture attualmente in funzione entro la fine di aprile.
D’altra parte, il problema del consumo di elettricità da parte della blockchain è ormai di dominio pubblico. Secondo il Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index, questa tecnologia impiega circa 130 terawatt orarie all’anno a livello globale. Più di nazioni come Argentina e Ucraina.
In soldoni, la blockchain è così poco sostenibile perché si basa sulla proof-of-work per validare le transazioni in criptovaluta e allo stesso tempo proteggerne la riservatezza. Si tratta di una prova matematica ultra-complessa che richiede capacità di calcolo abnormi. Ad eseguirla ci pensano i cosiddetti miners (minatori) grazie a computer molto potenti costruiti appositamente, e che assorbono quantità di energia clamorose. L’attività di validazione transazioni dei miners è ricompensata con l’emissione di bitcoin – è proprio il caso di dirlo – nuove di zecca.
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Chi si dedica al mining, dunque, lo fa a fronte di costi enormi. La conseguenza è che la maggior parte degli impianti si trovino in paesi dove l’energia costa meno. E guardacaso, la Cina mette insieme il 65% delle strutture a livello mondiale, mentre la Mongolia Interna arriva all’8% da sola. Tanto per avere una pietra di paragone, gli Stati Uniti si attestano al 7.2%.
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Non si placa dunque il dibattito sulla sostenibilità della blockchain. Secondo i critici, bisogna tentare strade con un’impronta ecologica ridotta; secondo i sostenitori, invece, essa rappresenta comunque un grande miglioramento rispetto al sistema bancario tradizionale e potrebbe essere estesa ad altre realtà che richiedono un grado di riservatezza elevato (si pensi ad esempio ai registri sanitari, in tempi di pandemia e non). La discussione proseguirà per molto tempo ancora e soprattutto è destinata ad allargarsi all’impatto ambientale di Internet in generale.
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