Privacy e presenza degli utenti sul web con annessa divulgazione di informazioni personali possono risultare due argomenti concettualmente lontani anni luce tra di loro. Questo perché la continua fuga e commercio di dati sensibili è ormai divenuta una prassi ricorrente.
Fare acquisti online, utilizzare dispositivi che consentono il monitoraggio dei parametri vitali, lavorare in remoto o andare sui social network sono alcune delle attività che costituiscono le routine dei cosiddetti cittadini della rete.
Tutti contesti in cui l’utente tende a condividere, con una certa facilità, informazioni su di sè o sulle proprie abitudini e a pubblicare contenuti fotografici o video che ritraggono estratti della propria vita.
Da un recente studio compiuto sui giovani nati dopo il 2000 dall’azienda Kaspersky, sviluppatrice dell’omonima suite antivirus, è emerso che non esiste una reale consapevolezza informatica in tema di sicurezza e protezione dati.
Da questa indagine è trapelato, infatti, che pur passando più di 7 ore al giorno sulla rete, solo il 38% dei ragazzi coinvolti era conscio di dover ampliare le proprie conoscenze informatiche.
Il 43% degli interpellati era invece fermamente convinto di non risultare interessante a sufficienza per carpire le attenzioni un criminale informatico.
Una scarsa percezione, quindi, che può celare una serie di rischi, se consideriamo la difficoltà – se non addirittura l’impossibilità – di rimuovere un dato o un contenuto una volta immessa nella rete.
Come riporta Kaspersky, nel Dark Web vengono quotidianamente vendute informazioni di ogni tipo – una cartella clinica può arrivare a costare anche 30 dollari – raccolte da varie fonti nel web tramite siti di phishing (pagine trappola che ripropongo siti istituzionali o legittimi) o violando server governativi.
Un’altra spiacevole pratica, segnalata nel report dell’azienda russa e connessa al traffico di dati personali, è quella del cosiddetto doxing; legata alla diffusione di informazioni anagrafiche o sensibili utilizzate come strumento di vendetta per ledere la reputazione online del malcapitato.
I primi passaggi consigliati da Kaspersky sono quelli di cercare il proprio nome all’interno dei motori di ricerca, Google in primis. Operazione utile a verificare la presenza – e l’eventuale tipologia di informazioni mostrate – su siti e portali.
Più o meno lo stesso step è consigliato per i social media, con un controllo approfondito di post e geotag dei posti visitati e una periodica verifica delle impostazioni della privacy, vitali per determinare la platea che accederà alle informazioni visibili.
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E se volessimo cancellare i contenuti in questione? Se in ambito social sembra essere facile, rimuovendo tag o eliminando post e foto, cosa fare con informazioni non eliminabili alla fonte?
Possiamo chiedere a Google e simili di non visualizzarne più la pagina nei link risultanti nella ricerca con un apposito strumento di rimozione.
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E nel caso di app invadenti? Per prima cosa l’utente dovrebbe eliminare applicazioni che tracciano il dispositivo senza un reale motivo. Stessa sorte andrebbe riservata a quei programmi che non utilizziamo ma che fanno ancora capolino sullo smartphone.
Insomma, anche se alla fine sembrerebbe esserci una soluzione per gran parte dei problemi esposti, è sempre meglio un’accurata prevenzione per salvaguardare la privacy online osservando pochi e semplici passaggi.
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